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L’album dei fake Panini

L’altro giorno ho riferito della sentenza di Cassazione che ha punito, ai sensi dell’art. 494 c.p. (sostituzione di persona) l’autore di un falso (“fake”) profilo su Badoo.
Si tratta, purtroppo, di casi tutt’altro che rari e, comunque, diffusi su tutti i social network.
Anche di recente, in un tribunale romagnolo, ho avuto modo di trattarne uno, per la verità con un’imputazione più ampia (giustamente) della semplice sostituzione di persona. E’ andata bene, la Polizia postale ha fatto un attimo lavoro ed abbiamo ottenuto un buon risarcimento.
Ma vediamo cosa dice la legge.
L’art. 494 c.p. recita: “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno”.
Si comprende che la disposizione prevede una serie relativamente complessa di ipotesi oltre la vera e propria sostituzione, ma vorrei focalizzarmi sul dolo (specifico) cioè procurare a sé o ad altri un vantaggio ovvero, alternativamente, recare ad altri un danno.
E, in effetti, la casistica ci parla di persone che falsificano gli account, ad esempio, per sembrare più attraenti (spesso utilizzando la fotografia di una persona di bell’aspetto) nei social network principalmente orientati al dating (e Badoo è uno di questi) oppure per denigrare una persona (utilizzando l’immagine, ma associando comportamenti non edificanti – come nel caso della sentenza della Suprema Corte).
Poi, c’è la categoria dei buontemponi che, però, rischiano di diventare stalker…
Stamattina, un amico di Facebook ha segnalato l’ennesimo suo fake. Se non ricordo male, è il terzo in pochi mesi.
Al di là del fatto in sé, ha ricordato che, in Francia, esiste un sito dedicato (tra le altre “truffe”) proprio ai fake che ha il preciso scopo di aiutare gli “usurpati” della propria identità.
E’ un’iniziativa che in Francia ha almeno un sito omologo, in Italia non so (ma se voleste segnalare…).
Pubblica un vero e proprio album degli usurpati, ma, francamente, la cosa mi lascia un po’ perplesso.

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Quando il like è reato

Ho l’impressione che, pur nel 2014 e nell’epoca dei social network, certe dinamiche proprie non siano ancora nello sttrumetario di color che dovrebbero disporne.
L’altro giorno ho sentito questa notizia che è tanto grossa che mi viene il sospetto che non sia vera (o del tutto vera): coimputato, con l’accusa di diffamazione. per aver messo un semplice “like” su Facebook.
Non voglio fare discorsi giuridici complessi sul concorso di persone nel reato, ma credo che si possa semplificare.
Ora, un conto è la condivisione di uno status. E ci ragioniamo (sull’ulteriore diffusione di un contenuto eventualmente illecito).
Un conto è, giusto per fare un esempio “della realtà tangibile” (quella non telematica, per dirla meglio), apprezzare pubblicamente un rapinatore (dopo la rapina).
Ci arrivano tutti che chi approva l’azione un tipo ancorché armato e incappucciato non risponde, pur in concorso, di rapina. O no?
Peraltro, ho giusto un caso simile…

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I social network non sono il Far West

Questa mi era sfuggita eppure è accaduta a Genova.
Un musicista è stato condannato, proprio dal tribunale del capoluogo ligure, per aver pubblicato, su MySpace, alcuni brani scritti (anche) da altri e una quindicina di fotografie che lo ritraevano, ma che erano state scattate da una fotografa cui non aveva chiesto l’autorizzazione alla pubblicazione.
Leggo nell’articolo del Secolo XIX che la condanna sembrerebbe discendere dalle particolari condizioni d’uso di MySpace (o di altri social come il classico Facebook).
In realtà, non è così: tutto discende, molto semplicemente, dalla legge, quella l. 633/41 sul diritto d’autore che, appunto, tutela i titolari dei diritti (come quello di diffusione) e prevede sanzioni anche di carattere penale.
Attenzione, dunque, a cosa si pubblica sui social network (e non solo). In realtà, spesso basta il consenso dell’autore, magari ricambiato dalla citazione della paternità, una forma di pubblicità di certo non sgradita.

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Lsdi > Facebook non è diventato ‘’stampa’’, tanto meno a Livorno

(da Lsdi del 15 gennaio 2013)

Mettiamo subito le cose in chiaro: Facebook, Internet in generale, non è improvvisamente diventato “stampa”. Non lo dice alcuna legge e, specie dopo la felice conclusione del caso Ruta, non lo dice più alcun giudice, tanto meno quello di Livorno cui qualcuno, però, proprio in queste ultime ore vuole a tutti i costi attribuire la citata equazione.

La legge, in particolare il terzo comma dell’art. 595 c.p., punisce la diffamazione mediante “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” come quella a mezzo stampa. Semplicemente perché si ritiene che questi mezzi, tra cui rientrano le pubblicazioni telematiche, abbiano una diffusività, dunque una potenzialità lesiva, pari a quella della stampa.

E’ previsto anche il carcere, in alternativa alla multa. Ma l’equiparazione è soltanto sanzionatoria.

Allora, il giudice di Livorno non ha sbagliato. Ha semplicemente applicato la legge, come hanno sempre fatto (giustamente, dalla prospettiva giuridica) tanti suoi colleghi.

Contrariamente a quanto pensa la giornalista Paola Ferrari, che l’anno scorso aveva dichiarato di voler querelare Twitter “in persona”, la legge c’è già e, come appena detto, nei casi estremi può avere ripercussioni pesanti. Non vi sono buchi normativi o sacche di impunità.

Se, poi, riteniamo che la legge sia sbagliata, discutiamone. Ma è un altro paio di maniche e non distorciamo le notizie anche soltanto per fare sensazionalismo.

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Internet=stampa? Questa volta no

Alla fine si è dimostrata una notizia infondata, anzi una “non notizia”.
Con un po’ di presunzione, ricordo che l’avevo previsto, anche se a volte la realtà supera la fantasia.
La giovane che, mediante uno scritto su Facebook, aveva insultato il datore di lavoro non è stata condannata per diffamazione a mezzo stampa, ma le è stata semplicemente applicata l’aggravante del “mezzo di pubblicità” che è giuridicamente ritenuto analogo alla stampa vera e propria. Ed è tutto normale, non è certo la prima volta che succede.
La notizia, ora, è stata riportata nei termini corretti, ad esempio da La Nazione (ma mi risulta che dietro ci sia un’ANSA).

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ZeusNews > Se l’abuso del computer può costar caro (2)

Succede, anche se da poco. Dopo un mio post qui, mi vengono in mente altre cose che scrivo per un articolo su ZeusNews.

(da ZeusNews del 5 maggio 2011)

Può l’abuso di Internet mettere nei guai un dipendente pubblico? Parrebbe di sì.

Sta accadendo a Bertinoro (in provincia di Forlì-Cesena), dove non uno ma ben cinque dipendenti parrebbero essere indagati per peculato e abuso d’ufficio, tutto perché avrebbero abusato degli strumenti informatici messi a disposizione, ovviamente per altri scopi, dall’Amministrazione.

E sembrerebbe non essere soltanto una questione di Facebook (sul quale si è enfatizzato parecchio visto che è il social network del momento), ma di un utilizzo massivo e generalizzato, anche per il download di materiali pornografici.

Tuttavia, visto che conosciamo ben poco del caso concreto (anche in considerazione del comprensibile riserbo dell’Autorità Giudiziaria), non possiamo che restare al piano astratto per vedere se condotte del genere possano condurre a una qualche specie di sanzione.

Per la verità non è la prima volta che ci si trova di fronte a qualcosa di simile. E parliamo del pubblico impiego dove il problema è noto da anni, tanto da aver trovato disciplina nel Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni del 2000, in seguito richiamato da un’interessantissima direttiva del Ministro Brunetta, specifica su uso di Internet e posta istituzionale.

Si capisce, dunque, che la violazione di certi doveri può portare quanto meno a un procedimento disciplinare, mentre, addirittura, nel settore privato si è parlato di un licenziamento a causa di Facebook (ma con alcuni indispensabili chiarimenti).

Rimanendo all’impiego pubblico (il “caso Bertinoro”) dove alcuni soggetti possono essere pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (anche se non è esclusiva prerogativa di detto settore), può essere realmente prospettabile un’accusa di peculato e abuso d’ufficio?

La risposta non può essere precisa, in un senso o nell’altro.

Da un lato, non si conoscono i dettagli precisi del caso concreto; dall’altro, da esso non si possono trarre principi.

Infine, non ci si può nascondere che certe tematiche si intersecano inevitabilmente con i diritti dei lavoratori (divieto di telecontrollo e, in genere, privacy).

Sicché possiamo fare soltanto un ragionamento astratto, anche facendo richiamo a materiali già disponibili.

Il primo è un precedente giurisprudenziale di Cassazione, che dovrebbe essere noto, secondo il quale in presenza di contratti flat (cioè non a consumo o a tempo) il danno economico rilevante per la norma incriminatrice (l’art. 316 c.p. che prevede il peculato) non è, di regola, calcolabile.

L’altro è la citata direttiva che sostiene una cosa fondamentale: «tale utilizzo non istituzionale non provoca, di norma, costi aggiuntivi, tenuto conto della modalità di pagamento flat […] utilizzata nella generalità dei casi dalle Amministrazioni per l’utilizzo di quasi tutte le risorse ICT».

Occorre evitare, dunque, di pronunciare sentenze definitive sull’indagine di Bertinoro (sulla quale, comunque, chi scrive nutre non poche perplessità), ma attenzione anche a non abusare degli strumenti di lavoro perché un procedimento penale può già essere la vera pena e il licenziamento (pur a certe condizioni) non è certo da escludere a priori.

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Se l’abuso del computer può costar caro

Utilizzare Facebook sul posto di lavoro può condurre ad un procedimento penale per peculato e abuso d’ufficio? Se si tratta di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio (figure normalmente – ma non esclusivamente – tipiche del pubblico impiego), la Procura di Forlì-Cesena risponde affermativamente. Lo riferisce il Resto del Carlino (che pone l’enfasi soprattutto sul social network, ma il problema è generalizzato) e la notizia si sta già propagando in Rete.

Personalmente, ho qualche perplessità. Non è la prima volta che per l’abuso di strumenti informatici, specie se collegati ad Internet, si ipotizza il peculato. Infatti, si conosce almeno un precedente di Cassazione abbastanza noto.

Il fatto è che, come dice la sentenza citata, per il reato in esame occorre verificare la sussistenza di un danno che però, come sappiamo, in presenza di utenze “flat” non è calcolabile.

Fermo restando che, come tengo sempre a dire, sulla scorta di un articolo giornalistico non si traggono conclusioni giuridiche. In più, da un caso concreto non si trae necessariamente un principio.

Prudenza, dunque.

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Licenza di taggare

Pare che negli Stati Uniti non occorra un permesso per taggare una persona su FaceBook, ma, afferma Mike Mesnick, “I’ve heard the argument that in Europe, it’s possible to use various privacy laws to demand that someone remove a photo or “tag” of the requester”.
In realtà, non è esattamente così in quanto già il viso ritratto in una foto è un dato personale e, come tale, tutelabile ai sensi del d.lgs. 196/2003, anche in assenza di un tag che riporti nome e cognome. Pertanto, contrariamente a quanto sostiene l’estensore dell’articolo, non è tanto questione di tag, ma di semplice immagine.
Molto può dipendere anche dal contesto e da altri fattori (ne parlavo nel Minottino), ma, in linea di massima, suggerisco di fare atenzione a pubblicare (anche senza taggare) immagini altrui.

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Evasioni virtuali (sic)

Adesso si può evadere mediante Facebook. No, non è uno scherzo. A scriverlo è il titolista di Repubblica Palermo.
E, puntualmente, è una stupidaggine: per il diritto (art. 385 c.p.) e anche per la lingua italiana.
Non conosco il provvedimento cui fa riferimento l’articolo, ma è altamente probabile che il giudice abbia ritenuto le comunicazioni con terzi (mediante Facebook) incompatibili con il regime degli arresti domiciliari e che, dunque, li abbia sostituiti con la custodia cautelare.
Conclusione, invero, già tratta dalla Cassazione e, comunque, valida per le comunicazioni telematiche, non necessariamente per questo e quel social network.

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Sbatti il mostro su Facebook

Succede che a Rapallo (peraltro, la “mia” città) un assessore si fa ritrarre in posa fascista (saluto romano) e bandierone R.S.I. La foto – direi anche “puntualmente” –  finisce su Facebook, verosimilmente per opera di un’altra persona ritratta.
L’amministratore si difende sostenendo che si è trattato di una goliardata, che, comunque, il fatto rientrava nella sua sfera privata e che, infine, quella foto non doveva essere pubblicata.
Ora, soltanto premettendo l’ovvio e cioè che il fascismo va condannato senza riserve, (*) non voglio entrare nel merito politico della vicenda (per tante ragioni… e l’assessore non è l’unico che conosco in quella foto…) o approfondire le implicazioni giuridiche di essa, ma quando ci si fa fotografare con evidente consenso, il male è necessariamente Facebook?

(*) Vorrei conoscere il nome dei genitori del bambino ritratto nella foto…

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