Category Archives: Sentenze e sentenzine

E otto

Con riferimento al post precedente, informo che oggi è intervenuto l’ottavo colpo di scure della Consulta ad una legge dell’emergenza.
No alla custodia cautelare obbligatoria, senza possibilità di graduazione, per i casi di violenza di gruppo.
Speriamo che qualcuno non se ne esca a dire che, d’ora in poi, il branco potrà essere libero.

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E sette

Conoscete una legge colpita per ben sette volte, in pochi anni, dalla scure della Consulta? Io sì. E’ il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, addirittura censurato in un solo articolo, il 2.
Con il cavallo di Troia dello stalking, nel 2009 si introdusse un giro di vite eterogeneo – e un po’ confuso – sulle misure cautelari.
Fu fissata l’obbligatorietà delle custodia in carcere, in presenza di gravi indizi ed esigenze cautelari, per una serie di reati ritenuti di particolare gravità, vietando, così, la graduazione con altre misure.
Solita legislazione dell’emergenza, emotiva e non razionale, figlia di un legislatore che ha perso la testa e non sa pensare ad altro che alla repressione.
Giustamente colpita quelle sette volte. Ecco le sentenze: la 265/2010, la 164/2011, la 231/2011, la 331/2011, la 110/2012, la 57/2013, la 213/2013 proprio dell’altro giorno.
Si attende l’attacco all’ultimo tabù.

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Stop all’anarchia del Web

Non sono le parole di Laura Boldrini (che ha smentito) ma, secondo me, l’estrema sintesi di una recente sentenza penale.

Ne ho già scritto ieri, per LSDI, ma sento la necessità di rileggere la vicenda anche perché il caso è molto simile ad uno che ho trattato, come avvocato, proprio di recente (e conclusosi, però con un’ampia assoluzione, solidamente motivata).

Mi riferisco alla condanna, per diffamazione, recentemente inflitta, a Varese, ad una giovane blogger: non per i propri scritti, ma per quelli di altri.

C’è un blog, con annessa area forum, come ce ne sono tanti. Si occupa del sogno di scrivere. Lo gestisce una ventenne, poco più. Si discute delle difficoltà di pubblicare i propri scritti: animatamente, molto animatamente, troppo animatamente. E, così, scatta la querela.

Tutto arriva in procura. Il blog è lì, con la sua pancia piena di dati tra cui anche quelli che possono far risalire al responsabile dell’illecito. Però, esattamente come nel mio caso, non si fa nulla. Si va semplicemente a cercare il gestore del blog che, immediatamente e senza alcuna riflessione critica, diventa responsabile, addirittura in sede penale (dove occorrerebbe un rigore decisamente maggiore). Non in concorso col vero diffamatore, ma “direttamente”, in proprio.

Il capo d’imputazione cita tutto e di più: codice penale, legge sulla stampa, addirittura la legge Mammì sulla radiotelevisione. Usiamo tutte le armi, anche le corazzate in una battaglia campale, qualcosa succederà.

Una gran confusione che, infatti, costringe addirittura il giudice a ricostruire la volontà dell’accusa.

Comunque sia, qualcosa in effetti succede perché, incredibilmente, la giovane viene condannata.

Prima, si fa un certo excursus sulla nozione di stampa (excursus anche dotto, se vogliamo), dimenticando, però, che la Cassazione ha più volte negato l’equazione Internet=stampa. Vero è che, da noi, non vige la regola del precedente, ma la delicatezza dell’argomento avrebbe consigliato un certo confronto con le tesi della Suprema Corte.

Secondo passaggio, abbastanza clamoroso. Internet può essere stampa, ma quel sito in concreto, con il suo àmbito di mera discussione, non lo è (e si può essere anche d’accordo, c’è un precedente specifico proprio sui forum). Però, va detto sin d’ora, alla fine alla fine ci sarà condanna senza alcuna concreta correzione del capo d’imputazione che, come detto, cita legge sulla stampa e legge Mammì.

Terzo e ultimo passaggio: però, l’amministratrice è, comunque, responsabile per ciò che è stato scritto all’interno dello spazio dalla stessa gestito. Così, senza spiegazioni, e con la conseguenza immediata che, allora, in termini generali di ogni luogo di discussione è sempre e comunque responsabile chi lo gestisce, che moderi o non moderi gli interventi. In barba, per giunta, alle regole, oramai ben acquisite, che fissano solidi paletti circa le responsabilità dei soggetti della società dell’informazione (d.lgs. 70/2003).

Da oggi, quindi, tutti saranno autorizzati a querelare Facebook oppure Twitter (qualcuno l’ha già fatto…).

Ignoranza o pregiudizio? Entrambe le cose, credo.

Ignoranza perché, oltre a leggi e sentenze assai rilevanti sul tema, si sconosce il funzionamento di certi contesti telematici. Un tempo si credeva di poter pretendere certe responsabilità per fatto altrui perché vi era comunque una qualche possibilità di controllo (ad esempio, la lettura dei vari articoli che si assemblavano in una redazione). Oggi non è più così, però non ce ne si rende conto e si applicano leggi vecchie (oltre che discutibili) a contesti nuovi, rivoluzionati, diversi

Anche pregiudizio, forse. Non sono stato l’unico a notarlo, mi fa piacere. Un significativo passaggio della sentenza, dai chiari toni paternalistici: “Le conseguenze sanzionatorie dei reati – si tratta di più azioni, unite dall’identità di disegno criminoso – possono essere contenute, in ragione della giovane età dell’imputata e di una sua possibile sottovalutazione delle condotte illecite, frutto di una diseducazione di cui essa stessa è vittima, in un contesto sociale di falsamente proclamata liceità di qualsiasi lesione dell’altrui personalità morale, tanto più se veicolata dai mezzi di comunicazione”.

Povera piccola, credeva all’anarchia del Web.

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Free Generale Zhukov

L’avevo nel cassetto da anni e ne ho sempre rinviato la pubblicazione.

Chi si ricorda della condanna del blogger “generale Zhukov” ad opera del Tribunale di Aosta? Bene, questa è la sentenza di appello. La si trova spesso citata nella letteratura giuridica, pochi la conoscevano, in realtà non è del tutto inedita. Ne ho pubblicato una versione senza nomi (sebbene siano abbastanza noti e già pubblici) e limitatamente alle questioni giuridiche.

La Corte torinese, pur tenendo ferma la condanna per fatti sicuramente attribuibili al blogger, lo assolve per uno scritto anonimo. Così viene fatta giustizia rispetto ad una sentenza di primo grado che, al di là della condanna per il singolo, aveva preoccupato molti.

Due sono le conclusioni, in estrema sintesi:

  • un blog, di per sé, non è assimilabile alla stampa, dunque il titolare non ha le stesse responsabilità di un direttore; in pratica, non è penalmente perseguibile se non rimuove contenuti illeciti;

  • il blogger non ha alcun dovere di impedire la commissioni di reati mediante il suo blog (in legalese, si dice “reato omissivo improprio”).

Ai tempi ne avevo già parlato e con me molti altri.

Ora, visti anche i felici esiti della vicenda di Carlo Ruta, direi che il cerchio si è chiuso, speriamo definitivamente.

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Internet=stampa? Questa volta no

Alla fine si è dimostrata una notizia infondata, anzi una “non notizia”.
Con un po’ di presunzione, ricordo che l’avevo previsto, anche se a volte la realtà supera la fantasia.
La giovane che, mediante uno scritto su Facebook, aveva insultato il datore di lavoro non è stata condannata per diffamazione a mezzo stampa, ma le è stata semplicemente applicata l’aggravante del “mezzo di pubblicità” che è giuridicamente ritenuto analogo alla stampa vera e propria. Ed è tutto normale, non è certo la prima volta che succede.
La notizia, ora, è stata riportata nei termini corretti, ad esempio da La Nazione (ma mi risulta che dietro ci sia un’ANSA).

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Sallusti: la parola alla Cassazione

Per chi volesse farsi un’opinione al di là della gazzarra di questi giorni, Guida al Diritto pubblica la sentenza integrale del caso di cui all’oggetto. Son 27 pagine, non male. QUI.

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La Rete che non c’entra

“Vietate le vendite piramidali online” e tanti titoli simili a questo, qualche giorno fa. Siccome, però, io sono come San Tommaso, sono andato a leggere la sentenza che un amico mi aveva mandato proprio quel giorno.
La Rete – tanto per cambiare – non c’entra molto, notoriamente è soltanto un mezzo.
Sicuramente, la legge è molto chiara (art. 5 l. 173/2005):

1. Sono vietate la promozione e la realizzazione di attività e di strutture di vendita nelle quali l’incentivo economico primario dei componenti la struttura si fonda sul mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che sulla loro capacità di vendere o promuovere la vendita di beni o servizi determinati direttamente o attraverso altri componenti la struttura.
2. E’ vietata, altresì, la promozione o l’organizzazione di tutte quelle operazioni, quali giochi, piani di sviluppo, “catene di Sant’Antonio”, che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui il diritto a reclutare si trasferisce all’infinito previo il pagamento di un corrispettivo.


Come si può vedere, però, il divieto non vale soltanto per Internet, non c’è alcun doppio binario. E ci mancherebbe fosse previsto il contrario.

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Giornalettismo > Perché i blog non sono stampa clandestina

(da Giornalettismo del 17 settembre 2012)

Finalmente divulgate le motivazioni della sentenza che ha assolto Carlo Ruta dal reato di stampa clandestina e, si potrebbe anche dire, con lui tutto il Web. I siti Internet, ancorché di informazione, non sono tenuti a registrarsi come testate giornalistiche.

Le motivazioni della decisione, in realtà depositate il 13 giugno ma diffuse soltanto nei giorni scorsi, poggiano sostanzialmente su quattro punti.

La legge sulla stampa (l. 47/48) si applica al Web in quanto riguardante prodotti realizzati con un procedimento tipografico e all’esito di tale procedimento destinati alla pubblicazione. Ma le pubblicazioni telematiche non sono il risultato di tale procedimento.

La legge 62/2001 – quella che molti sanno essere l’origine di tutti i problemi – ha introdotto la registrazione anche per i giornali online esclusivamente per motivi amministrativi e per poter accedere alle provvidenze riservate all’editoria: chi non le vuole, non è tenuto agli adempimenti burocratici.

Ciò, in modo esplicito cristallino, è stato ribadito dal d.lgs. 70/2003.

Infine – e qui sta la chiusura definitiva ad ogni tentazione punitiva – il riconoscimento di un obbligo di registrazione costituirebbe un’interpretazione analogica “in malam partem” (cioè sfavorevole all’imputato) vietata, addirittura, dalla Costituzione.

Tutto così semplice? Sì, fin troppo, perché la Corte Suprema ha cassato le tesi sostenute in primo e secondo grado in meno di una pagina (il nucleo delle motivazioni), peraltro con orientamenti già noti e fortemente condivisi almeno in dottrina.

Così, il minimalismo argomentativo della Cassazione pare proprio una pesante stroncatura dell’intera vicenda, dal suo inizio (la denuncia di una magistrato sentitosi offeso da alcuni scritti di Carlo Ruta e che aveva ipotizzato anche il reato di stampa clandestina) alla fine (non sfugga che il Procuratore Generale presso Cassazione aveva chiesto il rigetto del ricorso, dunque la conferma della condanna).

Una stroncatura a quell’ardita perifrasi, che i più attenti ricorderanno, fatta in primo grado – e confermata in appello – culminata in un clamoroso errore interpretativo che ha rischiato di uccidere il Web italiano: la “società dell’informazione” scambiata per una società commerciale attiva nel campo dell’informazione con conseguente esclusione della possibilità di non registrarsi per i singoli come Carlo Ruta.

Al di là dei tecnicismi, come detto l’assoluzione di Ruta vale per tutto il Web. E l’occasione sarebbe propizia per ripensare a leggi inevitabilmente anacronistiche che, come tali, andrebbero abrogate.

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Giornalettismo > Blog e diffamazione: il caso della provocazione

(da Giornalettismo del 16 marzo 2012)

Forse si smuove qualcosa…

Una sentenza della Cassazione salva il marito di una lavoratrice

Il licenziamento della moglie effettuato con “modalità ritenute illegittime” (pertanto prontamente impugnato davanti al giudice del lavoro) rende non punibili le frasi offensive profferite dal marito della lavoratrice e pubblicate su un blog. E’ quanto ha stabilito la V sezione penale della Cassazione con al sentenza 9907/2012, peraltro confermando l’assoluzione pronunciata in appello dal tribunale di Milano.

Come può essere accaduto? In realtà, per certi versi, la sentenza non è rivoluzionaria. I giudici di piazza Cavour, infatti, hanno semplicemente avallato l’applicazione dell’art. 599., comma 2, c.p. secondo il quale “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 (ingiuria e diffamazione, ndr) nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.

Così, è stato precisato che il “fatto ingiusto” può anche non avere rilevanza penale o civile (comunque, nel caso concreto, ci si trovava di fronte ad un licenziamento ritenuto in qualche modo illegittimo) e che anche qualora le offese provengano da un soggetto diverso (il marito, appunto) da chi ha subito l’ ingiustizia, esso può andare esente da pena per il riconoscimento della “provocazione” contemplata dalla norma citata. Il vento di novità, allora, sta nel fatto che finalmente, pur se in modo un po’ timido, alla Rete si applicano non soltanto i trattamenti sfavorevoli (si ricordino i tanti tentativi di assimilarla alla stampa), ma anche quelli favorevoli, come quelli della vicenda trattata dalla Cassazione.

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Breaking news: la Cassazione sul reato di accesso abusivo a sistema informatico o telematico

Integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall’art. 615-ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere dal soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultati dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitare oggettivamente l’accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema

E’ questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 4694/12 depositata proprio oggi.
In altre parole, povere, sono punibili anche coloro che, pur avendo legittime credenziali, si mantengono nel sistema per scopi esorbitanti, tipicamente per dare una “sbirciatina ” ai dati contenuti nel sistema, e senza che siano rilevanti i fatti successivi (tipicamente, l’uso dei dati).
Nel caso di specie, è stato respinto il ricorso contro la condanna di un esponente delle Forze dell’Ordine che aveva consultato lo S.D.I. (Sistema Di Indagine) per scopi estranei alla sua funzione. Caso ricorrente, purtroppo.

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