Giornalettismo > Perché i blog non sono stampa clandestina

(da Giornalettismo del 17 settembre 2012)

Finalmente divulgate le motivazioni della sentenza che ha assolto Carlo Ruta dal reato di stampa clandestina e, si potrebbe anche dire, con lui tutto il Web. I siti Internet, ancorché di informazione, non sono tenuti a registrarsi come testate giornalistiche.

Le motivazioni della decisione, in realtà depositate il 13 giugno ma diffuse soltanto nei giorni scorsi, poggiano sostanzialmente su quattro punti.

La legge sulla stampa (l. 47/48) si applica al Web in quanto riguardante prodotti realizzati con un procedimento tipografico e all’esito di tale procedimento destinati alla pubblicazione. Ma le pubblicazioni telematiche non sono il risultato di tale procedimento.

La legge 62/2001 – quella che molti sanno essere l’origine di tutti i problemi – ha introdotto la registrazione anche per i giornali online esclusivamente per motivi amministrativi e per poter accedere alle provvidenze riservate all’editoria: chi non le vuole, non è tenuto agli adempimenti burocratici.

Ciò, in modo esplicito cristallino, è stato ribadito dal d.lgs. 70/2003.

Infine – e qui sta la chiusura definitiva ad ogni tentazione punitiva – il riconoscimento di un obbligo di registrazione costituirebbe un’interpretazione analogica “in malam partem” (cioè sfavorevole all’imputato) vietata, addirittura, dalla Costituzione.

Tutto così semplice? Sì, fin troppo, perché la Corte Suprema ha cassato le tesi sostenute in primo e secondo grado in meno di una pagina (il nucleo delle motivazioni), peraltro con orientamenti già noti e fortemente condivisi almeno in dottrina.

Così, il minimalismo argomentativo della Cassazione pare proprio una pesante stroncatura dell’intera vicenda, dal suo inizio (la denuncia di una magistrato sentitosi offeso da alcuni scritti di Carlo Ruta e che aveva ipotizzato anche il reato di stampa clandestina) alla fine (non sfugga che il Procuratore Generale presso Cassazione aveva chiesto il rigetto del ricorso, dunque la conferma della condanna).

Una stroncatura a quell’ardita perifrasi, che i più attenti ricorderanno, fatta in primo grado – e confermata in appello – culminata in un clamoroso errore interpretativo che ha rischiato di uccidere il Web italiano: la “società dell’informazione” scambiata per una società commerciale attiva nel campo dell’informazione con conseguente esclusione della possibilità di non registrarsi per i singoli come Carlo Ruta.

Al di là dei tecnicismi, come detto l’assoluzione di Ruta vale per tutto il Web. E l’occasione sarebbe propizia per ripensare a leggi inevitabilmente anacronistiche che, come tali, andrebbero abrogate.

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