Category Archives: Giornalettismo

Giornalettismo > Le bufale di De Benedetti sulla Web Tax

(da Giornalettismo del 28 dicembre 2013)

L’argomento ad hominem, il prendersela direttamente con la persona piuttosto che con le sue argomentazioni, è sempre una tentazione; specie contro persone sulle quali ci sarebbe molto da dire. Ma bisogna sapervi resistere perché è uno stratagemma retorico la cui efficacia dura poco e, inesorabilmente, svela la pochezza di chi lo usa. E, comunque, nel caso che mi accingo a trattare si ha buon gioco a confutare argomentazioni deboli e inconferenti.

Carlo De Benedetti, novello “blogger” su Huffington Post, proprio ieri ha difeso a spada tratta la “Web tax”, appena rinviata dal Governo Letta.
Non è la prima volta, per la verità: era già successo il 16 dicembre scorso, sempre sull’Huffington. E partiamo proprio da qui. Secondo De Benedetti imprese come Google (ma anche Amazon e Facebook) venderebbero beni e servizi (in particolare, pubblicità) in tutto il mondo, Italia compresa, ma scanserebbe balzelli di qua e di là finendo per fatturare in Paesi dalla pressione fiscale più lieve, ad esempio l’Irlanda.

Vero. Talvolta si chiama elusione fiscale e, sino ad un certo punto, è lecita, sempre che non diventi evasione. Ma, allora, perché non non spezzare questo slalom fiscale e permettere che qualche briciola caschi anche qui da noi, italiani invidiosi? Ed ecco la “Web tax”: costringere chi genera in qualche modo profitti “sul” Belpaese ad aprire una partita IVA “IT” e, dunque, pagare tasse qui da noi, per quel profitto.

Tutto molto interessante per le nostre casse cronicamente vuote. Peccato che la misura sia soltanto un patetico tentativo di fare protezionismo. E non sono certo soltanto il populista Grillo e il Casaleggio piccolo fan di Big G a sostenerlo. Tanto per cominciare, Google fattura in Irlanda perché, molto comprensibilmente, ha scelto un posto dove non ti strozzano di tasse. E – piccolo particolare – l’Irlanda è UE, Eurozona. Circostanza che fa ancora più dubitare della legalità del balzello telematico, come rende sostanzialmente inconferente il riferimento dell’Ingegnere alla “stabile organizzazione” dell’impresa da tassare. In più, questa imposizione rischierebbe di tagliarci fuori , paradossalmente, da un flusso economico sicuramente appetibile perché le imprese costrette ad aprire una partita IVA italiana potrebbero rinunciare ad ogni attività qui da noi.

In termini generali, però, quello che risulta lampante è la ricorrente miopia dei nostri governanti, magari oggi quarantenni che, però, hanno ben più della loro età anagrafica e continuano a comportarsi come se la globalità del mercato e la transnazionalità della Rete non esistessero. Pensiamo a rendere l’Italia (e l’Europa) più competitive, non a gambizzare la vera economia cercando di tassare in tutti i modi chi, evidentemente, non pensa di investire in Italia per la demenziale pressione fiscale che ci distingue in tutto il mondo.

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Giornalettismo > Laura Boldrini e le leggi sul Web a sua insaputa

(da Giornalettismo del 3 maggio 2013)

Chi credeva che gli strali sulla Rete fossero appannaggio esclusivo di reazionari misoneisti eventualmente di destra si sbagliava di grosso e ora deve ricredersi. Oggi c’è stato un “uno-due” non da poco, addirittura proveniente da alcune delle più alte cariche dello Stato, di diretta discendenza di sinistra.

Prima Laura Boldrini, Presidente della Camera eletta nelle liste Sel. In una confusa intervista curata da Concita De Gregorio finiscono nel calderone le minacce alla stessa, purtroppo, ricevute con cadenza giornaliera, il femminicidio, il razzismo e la xenofobia (quelle di destra, come si specifica) e tutela dei minori. E, tra le righe, spunta l’idea di una legge speciale che permetta di intervenire a priori. Un approccio che fa paura a chiunque abbia cari i diritti fondamentali dell’uomo.

Poi, Pietro Grasso, Presidente del Senato, eletto in quota Pd, già Procuratore nazionale antimafia (non ce lo dimentichiamo). A Sky TG24 gli chiedono un commento alla parole di Boldrini e ne esce fuori la necessità di leggi ad hoc che combattano fatti come ingiurie, minacce e fatti anche più gravi.

Entrambi, dunque, parlano di leggi da fare, di un’anarchia della Rete (sic) che non si può più sopportare e che occorre fermare la valanga di insulti e minacce che viene dal Web. Tacendo, verosimilmente per ignoranza, fatti che non sono proprio dettagli.

Scendendo dalle vette del parlar figurato, ci si accorge che la Rete non è un’entità, è solo un mezzo, mediante la quale persone in carne ed ossa – altro che virtuali – compie le stesse azioni compiute sino a ieri con strumenti non tecnologici. Nessuno si è mai sognato di prendersela, ad esempio, con le Poste se qualche idiota spedisce pacchi bomba.

D’altro canto, la legislazione sul Web è sufficientemente assortita: ingiurie, diffamazioni, minacce e quant’altro sono reati già perseguibili secondo le leggi del nostro ordinamento, che sono state anche stiracchiate, se non stuprate, per adattarsi al nuovo contesto (si pensi all’inibizione della navigazione su decine di siti che ci ha fatto paragonare ai cinesi, quelli cattivi e censori, ovviamente).

Nessuno, invece, che sappia cogliere le opportunità della tecnologia, in particolare della telematica, se non, ad esempio, per lucrare sulle brutture del gioco d’azzardo, come fa ampiamente lo Stato. Nessuno che valorizzi, con apposita legislazione, le potenzialità della Rete, straordinario mezzo di comunicazione per l’esercizio dei diritti, universali, di informare e di essere informati.

Ormai abbiamo rinunciato ad avere il sogno di politici di tale sensibilità. Ma, almeno, che non pensino a leggi speciali anche perché esistono già regole applicabili eapplicate, evidentemente a loro insaputa.

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Giornalettismo > Scelta civica: Mario Monti inciampa sulla privacy

(da Giornalettismo del 7 gennaio 2013)

Monti scende o sale in campo (dipende se passa dalla gradinata o dagli spogliatoi) e, come la stragrande maggioranza dei politici, inciampa nella tecnologia. Non basta avere un account Twitter, far cinguettare allo staff improbabili WOW e faccine, occorrerebbe conoscere (o *farsi conoscere*) un po’ di più la tecnologia che vi sta dietro. Dopo la non proprio bella figura del pdf firmato Ichino, ne esce fuori un’altra simile.

IL WHOIS DI MARIO MONTI – Roberto Scano scopre che su www.sceltacivica.it è presente un’informativa sulla privacy a dir poco carente (peraltro, non mi risulta che per quel genere di trattamento sia prevista un’informativa semplificata), con due problemi specifici:

– Scelta Civica è un soggetto di carattere politico, dunque la cessione dei miei dati potrebbe attribuire agli stessi il carattere di “sensibili”, con tutte le pesanti implicazioni del caso (ovviamente, i dati sensibili godono di una tutela accentuata);

– La cessione dei dati avverrebbe non a Scelta Civica, ma all’”Associazione Italiafutura” (tutto attaccato…); non che la liaison con Montezemolo fosse un segreto, ma l’ambiguità sul titolare del trattamento è imbarazzante, anzi inaccettabile.

Soltanto per completezza, si ricordi che il Whois del nostro Registro, ad oggi conferma che il dominio è stato registrato dall’Associazione Italia Futura.  Il che comporta ulteriore confusione su un aspetto tanto delicato come il trattamento di dati personali collegati alla politica.

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Giornalettismo > WhatsApp viola la privacy?

(da Giornalettismo del 7 novembre 2012)

WhatsApp è certamente una della app più popolari del momento. Con un piccolo costo per il donwload da iTunes, gratuito in prova annuale per gli altri sistemi operativi mobile, è possibile inviare SMS e MMS mediante la connessione cellulare dati o via wi-fi a contatti che dispongono del programma sul proprio telefono. Considerate le tariffe dei messaggi tradizionali, un bel risparmio, non c’è che dire.

Ieri, mi scorre sotto gli occhi una notizia curiosa su su questa app: WhatsApp fa male alla coppia. E, in effetti, il rischio c’è. L’applicazione consente di sapere cosa fanno i nostri contatti: quando l’hanno utilizzata l’ultima volta (“visto”), quando la stanno utilizzando (“online”) e se stanno scrivendo (“sta scrivendo…”). E soltanto di recente tali notifiche possono essere disabilitate, peraltro soltanto su iPhone. E’ evidente che si tratta di informazioni che consentono un controllo invasivo sulla nostra sfera privata, un vero e proprio canale di telecontrollo al servizio non soltanto di un partner, ma – perché no – anche di un datore di lavoro un po’ troppo curioso.

E, allora, la ricetta è sempre la stessa: consapevolezza. Non è sano affidarsi all’ultima moda del momento (pur assai utile, come nel nostro caso) se non sappiamo e valutiamo bene cosa fa della nostra privacy. Già è possibile, per un programma informatico, trattare i nostri nascondendocelo, almeno prestiamo la massima attenzione a ciò  che fa in modo palese.

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Giornalettismo > Perché i blog non sono stampa clandestina

(da Giornalettismo del 17 settembre 2012)

Finalmente divulgate le motivazioni della sentenza che ha assolto Carlo Ruta dal reato di stampa clandestina e, si potrebbe anche dire, con lui tutto il Web. I siti Internet, ancorché di informazione, non sono tenuti a registrarsi come testate giornalistiche.

Le motivazioni della decisione, in realtà depositate il 13 giugno ma diffuse soltanto nei giorni scorsi, poggiano sostanzialmente su quattro punti.

La legge sulla stampa (l. 47/48) si applica al Web in quanto riguardante prodotti realizzati con un procedimento tipografico e all’esito di tale procedimento destinati alla pubblicazione. Ma le pubblicazioni telematiche non sono il risultato di tale procedimento.

La legge 62/2001 – quella che molti sanno essere l’origine di tutti i problemi – ha introdotto la registrazione anche per i giornali online esclusivamente per motivi amministrativi e per poter accedere alle provvidenze riservate all’editoria: chi non le vuole, non è tenuto agli adempimenti burocratici.

Ciò, in modo esplicito cristallino, è stato ribadito dal d.lgs. 70/2003.

Infine – e qui sta la chiusura definitiva ad ogni tentazione punitiva – il riconoscimento di un obbligo di registrazione costituirebbe un’interpretazione analogica “in malam partem” (cioè sfavorevole all’imputato) vietata, addirittura, dalla Costituzione.

Tutto così semplice? Sì, fin troppo, perché la Corte Suprema ha cassato le tesi sostenute in primo e secondo grado in meno di una pagina (il nucleo delle motivazioni), peraltro con orientamenti già noti e fortemente condivisi almeno in dottrina.

Così, il minimalismo argomentativo della Cassazione pare proprio una pesante stroncatura dell’intera vicenda, dal suo inizio (la denuncia di una magistrato sentitosi offeso da alcuni scritti di Carlo Ruta e che aveva ipotizzato anche il reato di stampa clandestina) alla fine (non sfugga che il Procuratore Generale presso Cassazione aveva chiesto il rigetto del ricorso, dunque la conferma della condanna).

Una stroncatura a quell’ardita perifrasi, che i più attenti ricorderanno, fatta in primo grado – e confermata in appello – culminata in un clamoroso errore interpretativo che ha rischiato di uccidere il Web italiano: la “società dell’informazione” scambiata per una società commerciale attiva nel campo dell’informazione con conseguente esclusione della possibilità di non registrarsi per i singoli come Carlo Ruta.

Al di là dei tecnicismi, come detto l’assoluzione di Ruta vale per tutto il Web. E l’occasione sarebbe propizia per ripensare a leggi inevitabilmente anacronistiche che, come tali, andrebbero abrogate.

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Giornalettismo > Il copyright e i poteri forti della Rete

(da Giornalettismo del 23 marzo 2012)

Un amico mi ha detto che questo editoriale è equilibrato. In realtà, a me sembra un po’ dai toni accesi, quelli di una volta. Un po’ “sopra le righe”, come una volta ho detto di un altro che se l’è pure presa, il permalosone.

:.:.:

L’anno scorso, d’improvviso, l’AgCom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) ha affermato di voler redigere un regolamento per la risoluzione delle diatribe sul diritto d’autore online.

L’idea non era piaciuta per il timore che tra i poteri che l’Autorità sembrava volersi attribuire vi fosse anche quello di ordinare l’oscuramento dei siti sospettati di violazioni della proprietà intellettuale. Col sospetto, peraltro, che ciò potesse costituire una scusa per un intervento in realtà meramente censorio.

Insomma, secondo alcuni il solito tentativo di imbavagliare la Rete con uno strumento dall’apparenza legale e, fatto altrettanto grave, bypassando la magistratura.

Personalmente, non ho mai avallato questa tesi un po’ paranoica, ma qualche rischio ci poteva essere. Il perché lo capiremo alla fine dell’articolo.

Fatto sta che, malgrado il sorprendente parere favorevole del costituzionalista (ed ex giudice costituzionale) Valerio Onida, e dopo una “proposta” molto soft di regolamento, il presidente AgCom, Corrado Calabrò, è andato in commissione parlamentare a riferire che non hanno potere regolamentare. Che ci pensi, allora, il legislatore.

Come mai questo clamoroso “revirement”?

Prova a spiegarlo Edoardo Segantini in un editoriale che è il vero bersaglio di queste mie riflessioni: “Poi però Calabrò deve aver avuto paura di mettersi contro la parte del «popolo della rete» più insofferente a qualsiasi limitazione, che trova nei big dell’economia digitale potenti alleati e in Parlamento ascoltatori sensibili”.

Queste e altre amenità qualunquiste contenute nel pezzo in commento, dimostrano, in realtà, sia un interesse di parte (comprensibile, rispettabile, ma non lo eleviamo ad interesse universale), sia un marcato misoneismo che, peraltro, si svela nella vacua locuzione “popolo della rete” (comunque, con le mie fortissime perplessità sull’uso del minuscolo, forse voluto).

Non è la prima volta che Segantini si occupa di temi tecnologici. Ha trattato di social network, banda larga, neutralità della Rete, spesso con curiosità, competenza ed equidistanza, va detto.

Che succede, ora? Credo che dietro ci sia il misoneismo di cui dicevo, forse il voler essere rassicurante come una Rete 4, magari anche una giornata storta: succede.

E c’è soprattutto la partigianeria di chi non vuole adattarsi al mondo che cambia sopra ogni singolo. Sì, perché i “poteri forti” non sono certo le “potenti organizzazioni offshore” – quasi un complottismo occulto – ma, piuttosto, certe note concentrazioni capitaliste – e “tradizionali”, nel senso weberiano – che si arrogano il diritto di pilotare il sapere.

Fermo restando che una semplice authority – peraltro costituita nei modi che anche Segantini dimostra di conoscere perfettamente – non può certo assurgere ad arbitro di un medium – la Rete – che è senza dubbio il veicolo più libero che si conosca: salvo l’intervento dell’autorità, appunto.

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Giornalettismo > Blog e diffamazione: il caso della provocazione

(da Giornalettismo del 16 marzo 2012)

Forse si smuove qualcosa…

Una sentenza della Cassazione salva il marito di una lavoratrice

Il licenziamento della moglie effettuato con “modalità ritenute illegittime” (pertanto prontamente impugnato davanti al giudice del lavoro) rende non punibili le frasi offensive profferite dal marito della lavoratrice e pubblicate su un blog. E’ quanto ha stabilito la V sezione penale della Cassazione con al sentenza 9907/2012, peraltro confermando l’assoluzione pronunciata in appello dal tribunale di Milano.

Come può essere accaduto? In realtà, per certi versi, la sentenza non è rivoluzionaria. I giudici di piazza Cavour, infatti, hanno semplicemente avallato l’applicazione dell’art. 599., comma 2, c.p. secondo il quale “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 (ingiuria e diffamazione, ndr) nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.

Così, è stato precisato che il “fatto ingiusto” può anche non avere rilevanza penale o civile (comunque, nel caso concreto, ci si trovava di fronte ad un licenziamento ritenuto in qualche modo illegittimo) e che anche qualora le offese provengano da un soggetto diverso (il marito, appunto) da chi ha subito l’ ingiustizia, esso può andare esente da pena per il riconoscimento della “provocazione” contemplata dalla norma citata. Il vento di novità, allora, sta nel fatto che finalmente, pur se in modo un po’ timido, alla Rete si applicano non soltanto i trattamenti sfavorevoli (si ricordino i tanti tentativi di assimilarla alla stampa), ma anche quelli favorevoli, come quelli della vicenda trattata dalla Cassazione.

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Giornalettismo > Stupro, giustizia e informazione

(da Giornalettismo del 15 marzo 2012)

Sui difficilissimi rapporti tra cronaca e diritto, ‘ché la prima del secondo non riesce proprio a parlare correttamente.

Scandalismo e sensazionalismo. Ancora una volta suscitati dalla già nota sentenza della Corte di Cassazione che ha dato una coerenza con la Costituzione ad una legge che, in caso di stupro di gruppo (ma anche per altri casi di violenza), prevedeva l’unica misura della custodia cautelare in carcere senza alcuna possibilità di graduare con altre misure.

Ed oggi, i media parlano già, nei titoli, di prima scarcerazione per effetto dalla pronuncia come se le porte delle carcere italiane si fossero spalancate per far uscire i peggiori maniaci sessuali. Come in questo servizio del TG3 che soltanto all’interno spiega qualcosa di più. Fortunatamente, come anticipato, non è iniziata alcuna evasione legalizzata di branchi di stupratori. In primis perché chi è dentro in forza di una condanna passata in giudicato non beneficia in alcun modo di quella sentenza che, infatti, vale soltanto per chi è in attesa di giudizio o, comunque, di una condanna definitiva. Non si tratta di un particolare di poco conto

In secondo luogo, le persona scarcerate sono proprio quelle di cui si è occupata la Cassazione. Difficile che il tribunale per il riesame – cui la Suprema Corte ha restituito gli atti – potesse decidere diversamente, vista la quasi “dettatura” per il caso concreto. Dunque, nessun reale pericolo per la giustizia. Nella pratica, difficilmente, un presunto stupratore in attesa di giudizio potrà subire qualcosa di più leggero degli arresti domiciliari. D’altro canto, è improbabile che i condannati definitivamente per certi reati potranno scontare la pena fuori del carcere.

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Giornalettismo > Stupri di gruppo, l’impossibile impunità

Molti hanno puntato il dito su Facebook, il più “popolare” (in tutti i sensi) social network, accusato di diffondere, ancora una volta, notizie false.
Come quella dell’altro giorno secondo la quale la Cassazione avrebbe sancito l’impossibilità del carcere per gli stupri del “branco”.
Niente di più falso e ho cercato di spiegarlo nell’articolo che segue. Credo, però, che tutto sia partito da un’altra fonte.
Gli utenti del social network blu sono spesso boccaloni, ma tendenzialmente in buona fede, ma i media tradizionali amano notoriaemnte fare i titoloni.
Per tacere dei politici che hanno commentato la notizia.

(da Giornalettismo del 3 febbraio 2012)

La notizia, riportata da molte fonti nelle ultime ore, secondo cui chi commette uno stupro di gruppo non andrebbe in carcere è completamente falsa.

Vero è, invece, che la Corte di Cassazione ha detto – ed io credo in modo corretto – che il giudice cui è richiesta l’applicazione di una misura cautelare in relazione al reato menzionato, non è costretto all’alternativa “secca custodia cautelare oppure nulla”, con l’impossibilità di graduare con misure più lievi come gli arresti domiciliari.
In realtà, la questione è piuttosto complessa, ma va comunque chiarita con un rapido allargamento di orizzonte.

Iniziamo col dire che per questo genere di reati, non v’è alcun dubbio sono previste pene detentive non lievi che, però, vanno chiaramente eseguito soltanto con il passaggio in giudicato della condanna. La sentenza depositata il 1° febbraio riguarda, invece, lo specifico tema delle misure cautelari, vale a dire quelle misure limitative delle libertà personali che si possono applicare, prima del giudicato, per motivi di cautela.

Il nostro ordinamento consente di applicarle a condizione che sussistano due principali requisiti: i gravi indizi di reato e le esigenze cautelari (pericoli di inquinamento probatorio, di fuga, di reiterazione). Esistono diverse misure perché esse vanno strettamente rapportate al caso concreto. La più afflittiva è senza dubbio la custodia cautelare in carcere (la carcerazione preventiva, come si diceva un tempo con un’espressione meno edulcorata di quella odierna), ma ve ne sono anche altre che, pur comportando sempre una sorta di detenzione, sono più attenuate: tipicamente, gli arresti domiciliari.

E in base alla scala, ve ne sono di ancora di più lievi, ad esempio il divieto di espatrio. Il giudice ha, dunque, la possibilità di scegliere tra una di queste, ma deve attenersi ai criteri dati proprio dal codice di procedura penale, tra cui c’è anche quello che individua nella custodia cautelare l’extrema ratio del sistema. Ciò sino al 2009, quando un decreto legge in seguito convertito, ha eliminato questa possibilità di scelta, limitatamente, però, ad alcuni reati tra cui quello di cui parliamo (art. 609-octies c.p.). In sostanza, per taluni reati di natura sessuale, anche in presenza di una pur lieve esigenza cautelare il giudice era sempre obbligato ad applicare la custodia cautelare in carcere. Altrimenti detto: presunzione assoluta di inadeguatezza di altre misure.

Questa soluzione è stata oggi disattesa dalla Cassazione perché la questione non era del tutto nuova. I giudizi di piazza Cavour, infatti, si sono ricordati di una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 265 del luglio 2010) la quale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della regola del 2009 (ma con riferimento ad altri reati sessuali, tra cui quello di atti sessuali con minorenne) per il contrasto con ben tre norme costituzionali (artt. 3, 13, comma 1, 27).

La Cassazione, dunque, avrebbe potuto chiedere alla Consulta che si pronunciasse anche sullo stupro di gruppo, ma ha ritenuto che i principi espressi nel 2010 fossero già direttamente applicabili a quest’ultimo reato. Oggi, allora, il giudice della cautela potrà nuovamente applicare  una misura più lieve rispetto alla custodia cautelare anche nei casi di stupro di gruppo.

Nessuna impunità, dunque. Soltanto il ritrovato spazio per una più ponderata gestione del caso concreto da parte del giudice in un momento in cui non vi è condanna definitiva.

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Giornalettismo > L’Ue vieta i filtri sul P2P?

(da Giornalettismo del 24 novembre 2011)

Vietati i filtri sul peer-to-peer. E’ questa, in sostanza, il senso della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea emessa proprio oggi.

Tutto, in realtà, nasce da una decisione un po’ scellerata con la quale il Tribunale di prima istanza di Bruxelles aveva imposto ad un provider di connettività, su istanza della SABAM (omologa della nostra SIAE), di impedire gli scambi peer to peer in violazione delle norme sul diritto d’autore.

In pratica, come ben evidenziato dalla Corte di Appello di Bruxelles che ha sottoposto il caso alla Corte di Giustizia, si era imposto al provider un sistema di filtraggio:
– di tutte le comunicazioni elettroniche che transitavano per i loro servizi, in particolare mediante programmi peer-to-peer;
– da applicarsi indistintamente a tutta la sua clientela;
– a titolo preventivo;
– a spese esclusive dei singoli provider;
– senza limiti nel tempo.

Proprio sul punto è intervenuta la Corte Europea che ha stabilito che un giudice dell’Unione non può ingiungere quanto sopra per la contrarietà alle norme comunitarie (peraltro, regolarmente recepite dai singoli Paesi) vigenti in tema di dati personali, commercio elettronico e anche diritto d’autore. Non si tratta di una cosa da poco. Gioiscono i provider che, non avendo un obbligo generale di sorveglianza, vedono oggi allontanarsi il pericolo che qualche giudice nazionale imponga loro adempimenti francamente esorbitanti, onerosi, forse addirittura irrealizzabili.

Gioiscono gli utenti che eviteranno controlli preventivi e indiscriminati in danno della loro privacy (un po’ come accaduto a seguito del caso Peppermint), potendo godere della pienezza dei servizi telematici. Insomma, una vittoria importante – anche se ottenuta su una decisione palesemente censurabile – a beneficio di molti. Fine dei giochi, dunque? Non si vuole rovinare la festa a qualcuno, ma chi pensa che la decisione europea abbia messo fuorilegge, ad esempio, anche i sequestri di siti mediante inibizione di accesso, si sbaglia di grosso.

La sentenza è intervenuta soltanto per il fenomeno peer-to-peer sull’ipotesi di filtri generalizzati, preventivi e a tempo indeterminato, predisposti nell’ambito di una sorveglianza attiva del provider. Da qui a ritenere illegali anche i “nostrani” sequestri di siti (tecnicamente molto più semplici) ce ne passa, purtroppo. Complice una giurisprudenza discutibilmente “creativa” circa l’inibizione di cui sopra, i fornitori di connettività saranno ancora tenuti a rispettare i decreti di sequestro.

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